giovedì 30 gennaio 2014

Le mamme non sono una categoria a parte: fatevene una ragione

Le mamme di oggi sono molto tecnologiche, vanno su Google per documentarsi sui trattamenti anti-pidocchi, creano su Facebook gruppi per i consigli di classe e si aggiornano in tempo reale sui compiti con WhatsApp. Qualcuna fa anche il live tweet dalla sala parto. Lo racconta ad AdnKronos Salute Tonino Cantelmi, docente di psicologia dello sviluppo alla Lumsa. Dopo avere studiato per anni i nativi digitali, il professore è giunto alla conclusione che anche le loro mamme sono iper-connesse.
Ora, prima che archiviate la notizia alla voce “scoperta dell’acqua calda”, forse è il caso di soffermarci un po’ sul sottotesto.
Ovviamente, se le mamme dei bambini piccoli, cioè quelle che si preoccupano dei pidocchi, sono iper-connesse, non è perché sono mamme, ma perché sono, beh, giovani. E come qualsiasi altro individuo sotto-una-certà-età, anche loro passano l’esistenza attaccate a smartphone e tablet. Di mamme millennial, cioè nate dopo il 1980, ormai sono pieni asili e scuole elementari, persino in Italia, dove i figli si fanno notoriamente tardi.
Ma allora, se che i millennial sono la generazione più iper-connessa di sempre ormai lo sanno tutti, perché sentiamo il bisogno di discutere di “mamme tecnologiche”? Perché parlare delle “mamme social” come se fossero un’entità separata dalla generazione ultra-social cui appartengono?

Una spiegazione potrebbe essere: perché le mamme non sono esseri umani. Beh, non esseri umani proprio come tutti gli altri.
La “mamma” è sempre qualcosa di altro. Un mondo a parte. Sembra quasi che il solo fatto di avere partorito un figlio – fatto piuttosto frequente, peraltro, tra gli individui di sesso femminile – ponga una donna al di fuori dal consesso comune, trasformandola in un archetipo, una categoria protetta.

Vivere nel paese del “la mamma è la cosa più bella del mondo” ha una serie di controindicazioni. La nostra è una cultura doppiamente mammo-centrica, continua a leggere

lunedì 27 gennaio 2014

L'amore a pagamento, un seminario per parlarne

Chi sono veramente?
"Sono uomini che considerano il rapporto con la prostituta come 'complementare' a una relazione stabile, spiega Mirta Da Pra Pocchiesa, giornalista e responsabile del Progetto Prostituzione e tratta delle persone del Gruppo Abele.
Sono uomini che nel rapporto con la prostituta vedono l'unico rapporto possibile per loro, in quanto ritengono di avere difficoltà relazionali e affettive con le donne 'normali'.
Poi c'è una piccola categoria di appartenenti ai gruppi dei clienti "particolari": con disabilità, con difficoltà sessuali, sadomasochisti, violenti, maniaci, o che preferiscono persone transessuali. Ci sono poi i clienti che si innamorano delle prostitute e le sposano, i cosiddetti clienti "salvatori". E non mancano i clienti "vittime" che si fanno manipolare, i clienti "padroni", i clienti "dell'estremo" alla ricerca della diversità a tutti i costi per non annoiarsi, i clienti "compulsivi" dipendenti dal sesso e perfino i clienti "punitivi": generalmente in gruppo e sotto l'effetto di sostanze vogliono punire le prostitute per il giudizio moralistico che hanno su di loro.

Sono uomini di tutte le professioni, ma in prima fila ci sono militari, marinai, pescatori, camionisti, lavoratori immigrati, uomini d'affari. Italiani, eterosessuali, con buona istruzione, adulti. In questi ultimi anni aumentano gli anziani, grazie al Viagra. La metà sono sposati. Uomini normali. Le motivazioni sono le più disparate e la lista dei "perché" è lunghissima. Ben 24 punti: si va con le prostitute per esprimere al massimo la propria potenza di fronte ad un "oggetto sessuale degradato", per bisogno fisiologico, per cercare conferme alla propria virilità, perché si ha paura del giudizio della donna, per trasgressione, per solitudine psicologica, per trovare modelli "vecchi" e "certi" di donne, per una sorta di rivalsa perché detestano le donne, per sperimentare nuove esperienze, perché altrimenti nessuna donna andrebbe con loro, perché con le prostituite non bisogna impegnarsi.
Un esercito invisibile - la maggior parte si vergogna - che conta in Italia almeno 2 milioni e mezzo di clienti, che cercano sesso a pagamento in strada, in luoghi chiusi o su internet. Il dato drammatico è che aumenta (dal 5 al 12% a seconda dei territori) la ricerca di rapporti con minorenni e soprattutto il turismo sessuale, che le organizzazioni cominciano a chiamare "turismo cattivo". Gli italiani hanno il vergognoso primato di essere i primi turisti sessuali in Kenya.

Sessualità e potere. "Oggi c'è una connessione sempre più forte tra sessualità e potere - commenta la giornalista -, e negli ultimi anni, anche tra sessualità, denaro e politica.
È condizionata da internet, dalla pornografia e dalla mobilità, ma è anche una questione di genere e di rapporti tra i generi". Secondo le ricerche "c'è una costruzione sociale negativa nei confronti delle prostitute e una positiva nei confronti del cliente, anche perché chi legifera è quasi sempre maschio.
La legge, in Italia, tutela e protegge il cliente (anche ignorandolo) da sempre. Negando la reciprocità si nega la comune responsabilità".


sabato 25 gennaio 2014

Primavera araba per chi?

Un cambiamento e uno sviluppo vero non avverrà nel mondo arabo senza un cambiamento essenziale della condizione femminile. "Si potrà parlare di primavera araba quando le donne non saranno discriminate" sono le testuali parole dell'avvocatessa iraniana e premio Nobel per la pace Shirin Ebadi.

E non ha sicuramente torto. Sono passati meno di tre anni e ci troviamo di fronte ad una situazione a dire poco buia sui frutti della cosiddetta Primavera araba!

Di recente é stato pubblicato un rapporto internazionale sulla condizione delle donne nei paesi arabi. Non è un mistero che tutti e nessuno escluso si aggiudicano gli ultimi posti al mondo per quanto riguarda rispetto e tutela dei diritti delle donne.
I giornali si sono subito affrettati a sottolineare che al primo posto c'è l'Egitto come peggior paese per la condizione della donna. Anche se i dettagli negli altri paesi sono più allarmanti.
Bisogna distinguere infatti tra il deficit strutturale e legislativo in alcuni paesi (soprattutto paesi del Golfo) e il peggioramento a causa dei conflitti in atto in altri come Libia, Tunisia, Siria e Egitto, dove, con mille difficoltà, le donne avevano fatto passi da giganti, ma dove purtroppo, questa cosiddetta Primavera ha azzerato i vantaggi ottenuti e ha rimesso tutto in discussione.

Tutte le Costituzioni nel mondo arabo, là dove ci sono perché alcuni paesi del Golfo non hanno una vera e propria Costituzione, evitano di affrontare in modo chiaro questo tema. Nessun accenno all'uguaglianza e alla parità tra i sessi, ma solo un'uguaglianza generica, non traducibile in leggi e chiari diritti.

venerdì 24 gennaio 2014

Sociabilità e relazioni femminili nell'Europa moderna

Undici saggi legati tra loro da un filo “socievole”: quello delle forme in cui donne e uomini si associarono nel passato, dalla fine del Quattrocento al primo Ottocento da cui emerge un'analisi quasi cordiale dei rapporti "di genere", presentati senza ambizioni teoriche in una serie di quadri e momenti di ravvicinata e vivace sensibilità.

Il libro, che sarà presentato martedì 28 gennaio alle ore 17 alla Sala Napoleonica di Palazzo Greppi, in via Sant’Antonio 10 a Milano, analizza situazioni "associative" dove donne e uomini si ritrovano a lavorare o a divertirsi insieme. Per motivi di affinità lavorativa o rituale, come nelle associazioni di mestiere, nelle confraternite, o società di vicinato; per motivi di passatempo, come nelle compagnie di giovani organizzatori di feste, o nei salotti, dove si affiancava ai giochi di tarocchi la conversazione elegante e la cultura letteraria.

La raccolta analizza il mutare del ruolo di donne e uomini nella chiesa e nella filosofia - dalle controversie seguite al bando degli sponsali a favore del matrimonio in chiesa, alla riflessione settecentesca sulla contraddizione tra eguaglianza umana e disuguaglianza femminile.
Si periodizza la vicenda delle "conversazioni" e dei salons d'intrattenimento e d'ingegno; si seguono i dibattiti sulle serate della buona società quando si aprirono alle dame sposate coi loro "cicisbei".
Si seguono casi quotidiani d'avventura e cambiamento: dalla vita delle monache tra clausura e indulgenza, alla scoperta medica e sociale della "sensibilità" femminile nel settecento; dal codice dell'onore familiare che emerge dalla vicenda di una bambina di dubbia nascita, contesa tra famiglia di sangue italiana e famiglia d'affetto inglese, alla lettura di carteggi d'amore e d'amicizia, come quello tra Vincenzo Monti con le sue dame "letterate".


sabato 18 gennaio 2014

Quanto ci costa il silenzio?

Il fenomeno è difficile da misurare, le vittime parlano assai meno degli autori di reato.
La mancanza di investimenti in azioni di prevenzione e in attività di sostegno e cura verso le donne vittime di violenza, causa un enorme danno economico e sociale.
Quanto ci costa il silenzio?
La prima indagine nazionale, promossa dalla Fondazione Intervita Onlus affronta per la prima volta in Italia questa domanda complessa.

Il progetto prende il via dall’unica ricerca nazionale sul fenomeno (Istat 2006). Partendo
da questi dati, e con il conforto di altri numerosi studi internazionali, con la validazione di un Comitato Scientifico e competenze multidisciplinari, le ricercatrici di Intervita, hanno saputo ricostruire un valore approssimato, per difetto, dei costi della violenza contro le donne in Italia.
Non è solo una operazione scientifica, che da sola già meriterebbe di essere approfondita, ma è soprattutto un atto politico e culturale di grande rilevanza, specie per un paese come il nostro, allergico alla misurazione continua e coordinata dei fenomeni, e assuefatto invece alle statistiche prêt-à-porter.
La ricerca parte dalla considerazione che l’intervento pubblico, a contrasto della violenza contro le donne, sia già legittimato da ragioni d’ordine umano, civile e sociale, ma che “si può migliorare solo ciò che si è in grado di misurare”.
Può essere di stimolo, per ridefinire le priorità di spesa ed investimento, una stima del valore economico dei costi sostenuti dallo Stato, dall'economia, e dalle stesse persone colpite dalla violenza fisica e psicologica, . Senza cadere nell'errore di considerare la dimensione economica avulsa dalle altre dimensioni della vita umana: la lente di ingrandimento sui costi economici e sociali consente infatti di comprendere meglio le conseguenze della violenza sulla vita delle vittime stesse e sulla società nel suo complesso.
Un esempio dei costi: quelli sanitari sono stati stimati in 460,4 milioni di euro e la cifra include il costo complessivo dei ricoveri al pronto soccorso delle donne vittime di violenza e delle cure successive.
I costi psicologici per l’assistenza delle vittime sono stati stimati in 158,7 milioni di euro.
I costi per farmaci delle donne che hanno subito violenza può essere rappresentato con una
spesa media complessiva di 44,5 milioni di euro.

mercoledì 15 gennaio 2014

I maltrattanti

Di Alberto Leiss

"Tra tante contraddizioni e ambiguità si comincia finalmente a vedere una verità semplice e incontestabile, ma da sempre rimossa: siamo noi uomini a agire la violenza, siamo noi il problema."

"Il dibattito pubblico sulla violenza degli uomini contro le donne potrebbe essere una buona leva per affrontare in modo molto più largo la quantità pervasiva di violenza che attraversa le nostre società."

"Credo non sia infondato chiedersi se il rapporto che noi maschi abbiamo con il nostro corpo, e con le pratiche di costruzione delle autorità, del potere, della forza e della violenza, non determinino un continuum nelle culture individuali, familiari e collettive che producono e fino a oggi hanno legittimato i comportamenti violenti."

Leggi l'articolo integrale

mercoledì 8 gennaio 2014

L'EIGE, un osservatorio sulle differenze di genere

L'Istituto europeo per l'uguaglianza di genere ( EIGE ) è un ente istituito in linea con le politiche di parità dell'UE per promuovere la parità di genere e per combattere la discriminazione fondata sul sesso.
Il quadro giuridico e politico dell'EIGE è definito dal principio dell'UE che l'uguaglianza tra donne e uomini non è solo un diritto fondamentale, ma è vitale per la solidarietà e lo sviluppo delle nostre società, in particolare alla luce delle attuali sfide demografiche ed economiche.

La sua funzione principale è quella di sostenere gli Stati membri nello sforzo di superamento delle differenze di genere in materia di istruzione, lavoro, famiglia, relazioni, salute, il tempo libero, vita nella società, che possono limitare la libertà e le scelte delle persone. 
L'EIGE, come Centro di competenza europeo sulle questioni relative alla parità di genere, ha una funzione di consulenza sulle politiche migliori per il raggiungimento della parità di genere.

Come Centro di documentazione raccoglie e conserva dati comparabili, utili a tutti gli Stati membri. Si pone come quindi anche come “memoria istituzionale” delle opzioni politiche e delle buone pratiche.
Il programma di lavoro 2013-2015 intende rafforzare l'EIGE nel supporto agli Stati membri 
consolidando la cooperazione con le istituzioni, la condivisione di informazioni sulle politiche nazionali efficaci.
Le priorità strategiche sono sviluppare dati comparabili, fornire informazioni affidabili e dati sulla violenza di genere,oltre allo sviluppo di uno strumento analitico che identifichi i benefici della parità di genere. 

martedì 7 gennaio 2014

Il cognome della madre è un diritto

Maria Maddalena, la figlia quindicenne dei coniugi milanesi Alessandra Cusan e Luigi Fazzo, avrà il cognome della madre.
Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che oggi ha condannato l'Italia per aver negato ai due coniugi la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre anziché quello del padre.
La coppia dal 1999 si batte, dalla nascita di Maria Maddalena, per vedersi riconosciuto questo diritto che consentirebbe alla prole la trasmissione del patrimonio morale del nonno materno deceduto, del quale sarebbe rimasta cancellata la memoria in mancanza di eredi maschi.
La sentenza è stata promulgata da sette giudici appartenenti alle seguenti nazionalità: turca, danese, italiana, serba, portoghese, svizzera e ungherese. Nella sentenza, che sarà definitiva tra 3 mesi, i giudici sottolineano che l'Italia "deve adottare riforme" legislative o di altra natura per rimediare alla violazione dei diritti riscontrata.

lunedì 6 gennaio 2014

Il sessismo è un problema culturale?

di Maria Grazia Casali

- Gli schiaffi sono schiaffi, scambiarli per amore può farti molto male.
- Un compagno violento non ti accompagna nella vita. Al massimo all’ospedale.
- Hai un solo modo per cambiare un fidanzato violento. Cambiare fidanzato.

Parte da qui Christian Raimo, dagli slogan contro la violenza maschile, per riflettere sul problema.
Sulla violenza di genere vista come una sorta di malattia sociale, senza sfumature tra uomo violento e uomo buono. Sulla “questione femminile” che è sempre confinata a una questione di donne. Sulle modalità mediatiche di comunicazione dell'urgenza, sul parlare dei sintomi senza le cause.
L'articolo apparso sul quotidiano "Europa" affronta la questione in senso culturale, problematizzando, cercando risposte nello stato emotivo del tempo che viviamo, chiedendosi quale ruolo abbia in tutto ciò l'educazione e la politica.
Parla di rilettura della polis nel privato, del confinamento dei conflitti nelle case, dell'incapacità a simbolizzare la rabbia.
Lo fa partendo da analisi, da studi che rilevano come la cultura maschilista non sia innata, e che il sessismo "benevolo" è accettato, non sempre riconosciuto dalle donne come forma di pregiudizio.
Soprattutto affronta un discorso coraggioso, viola il tabù sacro del machismo parlandoci della debolezza del maschio.
Si chiede se gli uomini abbiano mai provato a esplorare la propria educazione sentimentale e sessuale, la propria tensione verso la violenza, se abbiano mai dato un nome alle proprie fragilità, se abbiano mai cercato di mostrarle e spiegarle.
Secondo Raimo il problema è urgente, è "una tragedia sociale grave". Mentre le donne sono attrezzate a fronteggiare le crisi, la maggior parte dei maschi non ha modelli maschili utili per un mondo che cambia, non ha sviluppato quell'intelligenza emotiva che aiuta a uscire dallo stallo. Allora molti recuperano l'aggressività, nella reazione violenta contro i problemi che sfuggono dal controllo.
Quale può essere la soluzione? Soltanto la denuncia e lo stigma sociale? Se così fosse, limitarsi cioè all'emersione del problema, alla denuncia degli uomini violenti, la responsabilità collettiva è come se avesse dichiarato fallimento.

Raimo nel suo bell'articolo ci offre anche una traccia bibliografica. Da Lea Melandri a Chiara Volpato, da Pierre BordieuSteven Pinker, un elenco di libri e di studi utili a capire. Almeno qualcosa di più.